Shame è un film del 2011 diretto da Steve McQueen.
La storia è quella di Brandon, elegante uomo d’affari completamente asservito ai suoi bisogni sul sesso, un bisogno che si tramuta in patologici e compulsivi atti onanistici e carnali.
Un problema così intimo e radicato che la sua vita quotidiana trascorre senza che tutto ciò trapeli a livello esterno. Fino all’arrivo in casa della sorella minore Sissy spigolo duro della sua vita che potrà condurlo o meno ad un cambiamento, ma che nel suo caso amplificherà il vortice di perdizione e depravazione forse senza ritorno.
Un film sulla dipendenza sessuale e amorosa, dove i rispettivi interpreti di queste posizioni sono Brandon e la sorella Sissy. Entrambi dipendenti, entrambi incapaci di stabilire un incontro con l’altro, di stabilire un incontro intimo con le altre persone.
Le azioni che aspirano i due soggetti li inchiodano ad una ripetitività difficile da scardinare, una ripetitività che per quanto punti ad un godimento, questo si rivela mortifero, uguale a se stesso, che non provoca alcuna apertura sul mondo poiché ogni essere umano attraverso cui si rapportano è ridotto ad oggetto e non ad un altro diverso con cui stabilire un incontro da cui può scaturire l’entrata in contatto con diversi aspetti della loro persona. L’incontro suppone l’esporsi per quel che si è. Shame – vergogna – preannuncia una possibilità, ma che prende il verso della chiusura del soggetto. Chiusura individuale rispetto all’altro con il quale si parla ma non vi è dialogo, incontro.
Le azioni che Brandon compulsivamente mette in atto sono azioni che consumano, che devastano i corpi, orgasmi che sembrano non dargli piacere ma rivelano un volto quale maschera di dolore. Da quegli incontri non segue alcuna intima progettualità, alcuna apertura sul mondo, alcuna messa in gioco del soggetto.
Ogni rapporto sessuale è cancellato dalla ricerca di quello successivo.
Le scene di sesso e la sofferenza assumono una ripetitività che non lascia spazio ne al sensuale ne all’erotico, che presuppongono la presentificazione dell’altro come persona e non come oggetto, un incontro con un interlocutore diverso da sé. L’altro, qui, non esiste, ma esiste solo il soggetto alle prese con tutto ciò che – con la dipendenza sessuale lui e con la dipendenza amorosa lei – distanzia. L’altro è precluso così come il mettersi in contatto con sè stessi, possibilità che può dare la vergogna.
Brandon è assoggettato, aspirato dalla ricerca del sesso che fa di lui ciò che vuole così come la sorella nella sua continua ricerca d’amore, costringendola nel ruolo di vittima da accudire ed amare, posizione da cui non trae alcuna soddisfazione.
Entrambi hanno lasciato il palco ad uno sceneggiato che non gli appartiene, di cui non sono interpreti ma solo esecutori.
Ma cosa significa un incontro che schiude ad un apertura sul mondo? Un incontro che predispone il soggetto a diversificare le proprie azioni, ad esporsi al non conosciuto, all’aprirsi alle contingeze della vita? Ad essere interprete e non esecutore? Sicuramente essere esecutori di una realtà calata dall’alto ci impossibilita di abitarla con margini di azioni differenti o che abbiano sapori differenti. Azioni che non riducono, restringono il nostro campo di azione, ma che lo allargano, ci permettono di agire sul mondo che va schiudendosi, di esprimerlo in maniera diversa. Un incontro per Brandon sempre mancato, mai avvenuto. Un incontro che sembra poter avvenire. Incontro dove il rapporto sessuale non esiste, che lascia spazio, posto, a qualcos’altro.. a qualcun altro.. come la collega con la quale ha iniziato a frequentarsi.
Un’apertura forse vertiginosa. Un troppo a cui non è pronto.
Lacan affermava : “non c’è rapporto sessuale”. Ma cosa significa?
Che in questa volontà di godimento, di due volontà di godimento sessuale, ognuna è rassegnata all’esilio rispetto all’altra. Non faranno mai un Uno con l’Altro. Una via possibile che possa fare da ponte tra i due soggetti, sul vuoto incolmabile del rapporto sessuale che non cessa di non scriversi, allora si giocherà su un altro piano, quello dell’amore.
Amore come un “segno” della presenza dell’Altro che rivela una propria mancanza, elevando l’Altro come causa del nostro desiderio. Desiderio che ci agiterà, che puntando alla sua particolarità, alla sua radicale eterogeneità, ci farà emergere come soggetti non più assoggettati ad una ricerca continua e ripetitiva di un oggetto nuovo che colmi la nostra mancanza. Ma il “segno” d’amore di un Altro che la sveli.
L’uomo e la donna conservano infatti tra loro una radicale diversità, incolmabile.
L’uomo, come ben rappresentato dal protagonista, è attratto e gode dei corpi, del pezzo di corpo. Asservito alla ricerca continua del dettaglio. Quella forma, quella traccia, mai corrispondente pienamente a quella ricercata. La sessualità maschile, in particolare quella del protagonista, orienta il suo desiderio sull’avere, sul possedere.
Dominato da questa ricerca specifica, manca costantemente l’incontro con la particolarità dell’Altro, non vede la persona che ha di fronte poichè per lui è importante più il corpo del nome.
La donna qui, anche lei spinta verso un rinnovato ritrovamento di qualcosa, si incista inconsapevolmente in una ricerca affannosa, che si esprime nella domanda d’amore. Svincolata, la posizione femminile, dalla ricerca del pezzo, dalla ricerca del godimento idiota che non si pone domande, la espone ad un altra fragilità, nella ricerca continua di conferma dell’essere nel desiderio dell’Altro.
Ecco dunque, come la domanda d’amore, nella sua ripetizione, diventa un argine alla propria fragilità, alla propria insicurezza derivante da una mancanza.
Allora l’amore andrà a certificare quell’incontro quotidiano dell’altro in quanto Altro. A certificare la nostra posizione verso le contigenze della vita che costantemente ci mettono di fronte al nuovo, al non ancora conosciuto.