Forme del “NO”
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Il piccolo salto
Filippo, durante gli studi universitari, si ritrova a pochi mesi dal discutere la tesi.
Ha un appuntamento con il suo docente di riferimento e per questo, verso le 11:00 prende l’auto e si incammina verso l’università che dista pochi chilometri da casa, casa in cui abita con i suoi inquilini anch’essi universitari. Filippo sente la stanchezza e l’ansia di un giudizio. Dell’approvazione o meno del testo. Sente di aver dato il massimo affinché ogni parola scritta potesse in qualche modo ricevere l’approvazione dell’altro. Di questo altro che per lui in quel momento andava a rivestire il corpo del docente. Ma nel suo incamminarsi non c’è questa consapevolezza. C’è solo il semplice dirigersi verso l’università, con l’ansia che il suo lavoro sia ben giudicato e accolto. Questo non avviene. Da parte del docente ci sono le giuste osservazioni che il ruolo gli impone, ma dall’altra parte vi è un ricevente, in ansia, predisposto all’attesa che qualcosa possa non andare bene, ma vivendola con una sensazione di paura che questo avvenga. Filippo torna a casa dopo aver sentito nel corpo, la frustrazione dei rimandi. Durante il tragitto in auto, ad un incrocio, avverte una sensazione strana.. non la comprende, ha un iper-percezione delle cose, percepisce un frastuono e una sensazione come se stesse accadendo un incidente, un esplosione, come se il mondo stesse crollando e ricerca la causa di queste sensazioni nel cielo.. nell’attesa al semaforo avverte una sudorazione fredda alla fronte e alle tempie. Tutto aviene in una frazione di secondo ma il tempo si è dilatato e vive appieno ogni istante. Rimane sconcertato, fermo al semaforo fino a quando le auto dietro di lui gli inpogono di procedere a suon di clacson.
Depressioni
Nell’ambito dei disturbi depressivi, vi è una riduzione del soggetto a sentirsi senza valore agli occhi di se stesso e degli altri. Un sentimento di disinserzione da se stessi e dal mondo, che si declina nella forma riconoscibile della sensazione dell’abbandono. Tristezza, indecisione, sensi di colpa, sfiducia in se stessi, disturbi del sonno e dell’appetito, mancanza di progettualità. O il rovescio della medaglia che si manifesta attraverso euforia, sbalzi d’umore, iperattività nel pensiero e nella parola con numerose progettualità monche.
Vissuti di cui non esiste una causa generalizzabile per tutti, ma alla cui radice è possibile rintracciare un sentimento di perdita. Abbiamo vissuto una perdita. La presenza di una perdita nella storia personale è un qualcosa che accomuna tutti ma che può aver avuto un peso, un’incidenza particolare. Un’incidenza che ha preso la forma dell’abbandono, di una delusione forte, intaccando l’immagine che si ha di se stessi.
Generalmente l’inizio di questa incrinatura combacia con avvenimenti evidenti ed altre volte invece hanno agito o agiscono sottotraccia, ma che si accumunano per il fatto di fare da cassa di risonanza rispetto ad altri accadimenti rintracciabili nella nostra storia personale. Qualcosa si è incrinato. Dunque una nuova perdita, che se il sentimento ci pare ingiustificabile, ne rievoca un’altra.
Sentimenti taciuti, negati, silenziati attraverso escamotage che hanno la funzione di ri -compensarci. Essere i più bravi in un campo della vita così come iperattività ed euforie, manifestano direttamente attraverso il corpo e l’umore la necessità di allontanarsi, di essere in altro luogo da ciò che ci ferisce. Quella perdita rivela così di essere ancora attaccata a noi, di essere in noi, facendoci vivere alla sua ombra. Non avendola ancora accettata ci fa permanere in un certo qual modo ancorati al passato.
Le diverse manifestazioni di questo lamento ci posizionano in una postura vicina all’immobilità, alla rinuncia, all’attesa di un risarcimento.
Per Lacan “cedere sul proprio desiderio” ci dice, è “un peccato”, una “viltà morale”.
La depressione clinica spesso si sostiene anche quando si è voltato le spalle ad un’aspirazione, un talento.
Le scuse sono molteplici, comode, ma paralizzanti.
Il lamento sostiene e copre questa nostra posizione.
Dare un nome, nominare queste perdite ci permette di trasformare quel sentimento di abbandono in altro, di togliere il velo del lamento per osservare cosa c’è dietro, di ri -orientarci dall’attesa del risarcimento che attendiamo per tornare all’amare. Scoprire le nostre aspirazioni sopite, le nostre vocazioni, i nostri talenti. Cambiando verso torniamo ad aprirci al mondo, tornando appunto ad amare.
Solitudini
Una solitudine imposta o meno dall’Altro puó far emergere gradatamente la domanda della sua presenza.
Una domanda di diversa presenza dell’Altro e nell’Altro. Di una nostra diversa presenza nell’Altro.
La solitudine è una declinazione del legame.
La condizione di solitudine è anch’essa legame.
Ricercata o meno, rileva che siamo all’interno delle sue corde.
Una volta assunta la posizione di solitudine, questa può permetterci un ascolto di noi stessi, un confronto con noi stessi, in cui, a ben vedere, l’Altro è sempre presente. Verso cui cerchiamo costantemente di ri-posizionarci.
Quando, non solo come attualmente sta accadendo, è rinviata ad ognuno dei membri della comunità la proprio solitudine, questa può farci scorgere come tale condizione possa essere un ristoro o una messa in questione del rapporto con l’ideale che abbiamo di noi stessi.
Quando si declina in una messa in questione del rapporto con l’ideale che abbiamo di noi stessi, all’orizzonte possiamo scorgere i nostri tentativi per congiungervi. La continua ricerca di aderirvi, spesso e volentieri risulta essere fatta solo di tentativi che fanno emergere di come il nostro movimento si scontri solo ed ulteriormente con il ri – congiungimento con i tentativi stessi, poichè a ben vedere, come afferma Lacan “anche quando si fa qualcosa che riesce bene, non è proprio quello che si voleva”.
Questa discrepanza da dove proviene? Quali aspettative abbiamo di noi stessi? Da dove proviene questa aspettativa?
Ossessioni
Le forme del rimandare. Tutto si riduce a questo.
Alle diverse declinazioni e formulazioni che possono prendere: dall’attività psichica dei pensieri fino alle compulsioni. Un girare a vuoto in cui non vi è avanzamento, apertura sul nuovo.
All’Interno di questa cornice tutto è atto al congelamento della propria vita. La ripetizione, che qui si manifesta più palesemente, nella tendenza a rimuginare, nel girare a vuoto sugli stessi argomenti o comportamenti fino a mettere in atto azioni dettate da imperativi interni, ci porta a scorgere come il non scegliere, l’imporsi del dubbio o la quotidiana e minuziosa amministrazione della vita siano tutte forme del rimandare.
Ma rimandare che cosa?
Rimandare un nostro coinvolgimento più profondo con noi stessi e dunque con l’Altro. Un rimandare un incontro autentico con la vita e tutti suoi disallineamenti fatti di imprevidibilitá, ingovernabilità, caducità, scoperta e spesso e volentieri, accadimenti fuori di senso.
La governabilità che punta all’ordinario, all’immutabile, al silenziare le discrepanze, rispondono all’Altro con la formula:
“faccio tutto quello che vuoi ma non mi chiedere niente” .
Logica sottotraccia che mette in luce la volontà di mettere fuori gioco un incontro, una discussione più profonda di sé. Si mette fuori gioco l’incontro con la radicale eterogeneità dell’Altro. Il suo carattere sconosciuto e imprevedibile che viene messo a tacere facendo ciò che vuole, ma per essere lasciati in pace.
Non mi chiedere niente. Non incontriamoci perchè non posso espormi.
Quand’anche raggiungiamo la quiete più assoluta che ci avvicina all’immobilità della vita nell’atto di preservarla e preservarci, attraverso le diverse forme che le problematiche di natura ossessiva comporta, quest’ultime possono radicalizzarsi ancora di più, poiché il tarlo del nostro desiderio, delle nostre aspirazioni, dei nostri talenti, per quanto lì soffochiamo, non si possono silenziare.
Il rimandare è nella sua forma più estesa, l’attesa di vivere. Allontanare la chiamata alla vita. Posticipare l’incontro con essa al fine di non esporci.
C’è qualcosa di più, in noi, che chiede parola e vale la pena di dargli ascolto.
Allentare la rigidità che le problematiche di natura ossessiva comporta, ci permetterà uno slancio diverso: verso un amore, una passione, una quotidianità rinnovata, facendocene tollerare ed amare tutte le sue contraddizioni interne, fatte di imprevidibilità, differenze, discrepanze e disallinamenti preziosi.
Ansia
Le diverse caratteristiche degli stati d’ansia e dell’ansia più in generale sono sensazioni che ogni persona ha potuto sperimentare nella sua vita. Rispetto il loro verificarsi, si possono riscontrare in condizioni specifiche, in condizioni più generali e meno strutturate, cosi come se ne può riscontrare una diversa dispiegabilità nel tempo e nei confronti di determinate persone.
Lo stato di allerta, l’agitazione non giustificabile e stati d’angoscia sono spesso legati ad un interrogativo sotteso, che si muove sottotraccia, inconscio. Un interrogativo che fa da leva, nelle sue diverse formulazioni e possibili declinazioni:
Chi sono io per l’Altro?
Le sue diverse e possibili declinazioni possono essere: sto facendo bene? Se mi comporto così, se sono così, sono accettabile? Spesso e volentieri possiamo scorgere in noi che a queste domande rispondiamo direttamente, vivendo con ciò che ne consegue: uno stato d’ansia sul possibile riscontro di un giudizio atteso, l’agitazione di un possibile giudizio nonostante l’evidente impossibilità di combaciare con l’idea che ci siamo fatti dell’aspettativa altrui.
Tutto ciò ha la conseguenza di aumentare la nostra azione difensiva o attraverso la compiacenza, funzionale nel breve periodo, o l’irrigidimento, gli stati d’allerta e perchè no, fino ad avere crisi di panico e stati angosciosi.
Il riconoscimento non passa attraverso tutto questo. Spesso non passa attraverso a ciò che supponiamo che gli altri vogliono da noi. Perchè, a ben vedere, siamo più o meno tutti uguali in momenti diversi.
Attacco di panico
Il sintomo psichico del panico, e tutta la sintomatologia che ne consegue, può essere portatore di un significato. L’ attacco di panico, con i suoi diversi gradi di quantità e intensità, non casualmente trova la sua origine in coincidenza di accadimenti importanti nella propria vita: la perdita del lavoro, di una persona cara, una separazione, un ricongiungimento. Dunque un cambiamento che più in generale può avvenire anche sotto traccia, ma che risulta essere rilevante per la nostra psiche, per noi. In talune circostanze si può realizzare di essersi spesi ad adempiere più le aspettative altrui che le proprie e di aver tralasciato i nostri desideri, le nostre aspirazioni; altre volte la sintomatologia si presenta così decontestualizzata dall’avvenimento importante della nostra vita, che non ci permette di scorgene il legame. Ci costringe piuttosto a reagire con carattere di emergenza: si va dal medico, al pronto soccorso, si eseguono esami per poterne trovare la causa organica fino a quando si giunge ad apprendere di soffrire di attacchi di panico. L’attaco di panico ci costringe, anche se per alcuni con carattere di emergenza, ad occuparci di noi stessi.
Rileggendo la nostra storia, possiamo scorgere, attraverso un percorso terapeutico, dove ci siamo lasciati travolgere. Quali sogni, quali aspirazioni abbiamo lasciato da parte? Per quale motivo non trasformare una crisi in un’occasione di crescita?
Sul trauma
Il trauma come effrazione di una violenza è un evento che colpisce il soggetto ponendolo nella condizione di inermità nei confronti di questo. Un reale che fa irruzione nel campo del soggetto lasciando delle conseguenze. Le conseguenze e il trauma stesso, sembrano per il soggetto odierno essersi ricalibrate all’interno della nostra epoca rispetto quelle passate, epoca che sembra incidere sia sulla formazione psichica del soggetto che sulla sua capacità di risposta agli eventi cosiddetti traumatici.
Che cosa rende difficoltosa una ripresa soggettiva del reale come spigolo duro dell’esistenza?
Il “colpo di reale” impossibile da anticipare o da evitare, mette in difficoltà il soggetto, con diversi gradi, nella ripresa di ciò che gli è accaduto. Il trauma sembra cosi avere azione di preclusione, uno statuto di reale in eccesso.
Ma può avere un “colpo di reale” una conseguenza traumatica senza partecipazione soggettiva? Può un’effrazione del reale impossibilitare qualsiasi ripresa soggettiva, un evento altro non simbolizzabile, che escluda il soggetto da una scena che non gli appartiene più?
Ne “L’epoca dei traumi” Colette Soler sostiene la tesi che nessun “colpo di reale” produce una conseguenza traumatica senza partecipazione soggettiva, ma che il punto di vista dell’epoca attuale sembra invece concedere dapprima un carattere traumatico a questi eventi supponendo poi delle conseguenze morbose per coloro che le subiscono.
Inoltre oggi, per C. Soler, le effrazioni di reale non ricoperte dal simbolico sono manifestazioni terminali della carenza dell’Altro, che portano in seno un sempre più sistematico ricorso all’Altro per significare nuovamente là dove il senso fa difetto. Altro che seppur inconsistente è invocato sotto forme di supplenze, che lo ergono ad Altro riparatore, deresponsabilizzando il soggetto rispetto i propri sintomi.
Il trauma è uno dei nomi che si danno alle effrazioni del reale dal quale il soggetto o il suo corpo è assalito con carattere di sorpresa. Un reale impossibile da prevedere, anticipare o evitare, che fa irruzione nel campo del soggetto lasciando delle tracce. Per Freud il “momento traumatico” è da rintracciarsi in un’esperienza di impotenza, Hilflosigkeit, un incontro con un pericolo reale che predispone a un aumento di eccitazione al quale l’individuo non riesce a far fronte. Il soggetto indifeso è impadronito da un aumento d’eccitazione rivelandone la sua impotenza.
Si potrebbe dire che il soggetto, al di là dall’evento cui è sottoposto, per sua costituzione è impossibilitato nel farvi fronte riconducendolo all’esperienza di una quantità d’eccitazione intrattabile. Questa impotenza è quindi da ricondursi non all’evento che ha indotto l’aumento dell’eccitazione che s’impadronisce dell’individuo, ma allo stato in cui versa il soggetto nei confronti dell’aumento di questa eccitazione intrattabile.
Intrattabile da che cosa? Colette Soler afferma che Freud lo dice esplicitamente: “intrattabile con le vie, die Wege, del discorso”.
Ma cosa accade durante l’evento traumatico?
L’evento traumatico Freud nella quarta delle Nuove conferenze definisce ciò che egli chiama il “momento traumatico” un’esperienza d’impotenza, Hilflosigkeit, come un incontro con un pericolo reale e connesso a un aumento di eccitazione che s’impadronisce dell’individuo. E di fronte a questo il soggetto si trova indifeso.
Il soggetto si trova dunque in rapporto ad un quantitativo di eccitazione e a ciò che egli chiama le “forze del soggetto”. Inserire l’angoscia all’interno di questa logica significherebbe assegnarle un ruolo che si implicherebbe con la sua funzione di segnale. Segnale dell’incursione del reale nel simbolico. Il trauma sarebbe quindi maggiore quando assume quelle caratteristiche con cui è descritto, come una violenza di un eccesso che assale il soggetto o il suo corpo con quella sorpresa che genera lo shock o lo spavento. Un reale impossibile da prevedere, anticipare o evitare, che fa irruzione nel campo del soggetto impedendo alla funzione dell’angoscia come segnale di fungere come fattore di resistenza alla sorpresa traumatica.
A queste condizioni è possibile dunque isolare due momenti, due componenti che Colette Soler in L’epoca dei traumi divide in questo modo: da un lato ciò che si può chiamare il “colpo di reale”, in cui il soggetto non è implicato, qualcosa gli viene addosso a un livello ove non si può richiamare la sua responsabilità. Un “momento dell’incontro con un reale che non ha corrispondente nel simbolico e che emerge fuori da tutte le coordinate”. Dall’altro lato ciò che segue, le ripercussioni, “ciò che chiamo le conseguenze, post – traumatic disorder, i disordini post – traumatici, sono sempre del soggetto e della lettura che esso fa dell’evento reale. Questa lettura reca il tocco, la marca del suo inconscio, di quel che è egli come soggetto, nonché la marca del discorso collettivo – e per questo ciò può muoversi nella storia”.
Dunque in un incontro non atteso di fronte al quale il soggetto è esposto, impossibile da anticipare o evitare, l’angoscia non è che il segnale che registra lo stato in cui versa il soggetto dopo il colpo di reale. Stato in cui il soggetto è preso da un Altro della pulsione che risulta invadente e ingovernabile. Un Altro che costata una reale carenza del segno, carenza che, come vedremo successivamente, sembra manifestarsi a più livelli. Qui la posizione esistenziale del soggetto sembra porsi fuori dalla trama simbolica la cui ripresa sembra debba demandarsi alla sua responsabilità, poiché versa in una posizione in cui il soggetto deve reperirsi come tale.
Ma cosa può impedire una ripresa soggettiva di quanto gli è accaduto? Come può un evento registrarsi come evento altro non simbolizzabile, che escluda il soggetto da una scena che non gli appartiene più? Sicuramente sono quesiti non riferibili ad un unico individuo in quanto nulla fa pensare che vi siano post – traumatic disorder standard che minacciano la vita e dunque risposte – tipo, poiché l’idea è che vi sia risposta ed effetti mai identici per tutti i soggetti. Ma forse si può delineare, quanto fin qui fatto, una logica all’interno della quale il soggetto insista nella sua posizione in cui ancora non si reperisce come soggetto. Posizione in cui la contingenza traumatica può innescare l’automaton della ripetizione sintomatica, in cui il soggetto vi ha si aderito nel proprio essere, ma che le risorse di cui dispone rendano difficoltosa la sua reperibilità.
A riguardo si può dire che il permanere, l’insistere del soggetto in una posizione in cui è impossibilitato a simbolizzare l’esperienza di quanto gli è accaduto e che gli si ripropone sotto le diverse manifestazioni sintomatiche come il ritorno allucinatorio delle immagini terribili, il panico o stati di derealizzazione, siano tutte manifestazioni, a mio avviso, che indicano il rifiuto dell’esperienza della perdita di sé come soggetto, o meglio, di quella posizione attraverso cui si rappresentava sulla scena del mondo e attorno al quale esso stesso si costituiva. Il rifiuto di una discontinuità che impedisce ogni ripresa soggettiva. Il ritorno allucinatorio negli incubi del traumatizzato segna il ripetersi dell’evento fuori da ciò che è la memoria del soggetto. È il ritorno che non si inscrive nelle Vorstellungen. Ciò che non viene inscritto nella memoria non può essere rimemorato.
Come afferma F. Lolli in “E’ più forte di me, il concetto di ripetizione in psicoanalisi” l’operazione legata al ricordare può arrivare fino ad un certo punto, ricordando l’eco delle parole di Freud di Ricordare, ripetere, rielaborare; non tutto può essere ricordato, qualcosa sfugge alla memoria: Ciò che non può essere ricordato viene ripetuto, aveva scritto Freud; ciò che non può essere ricordato e che viene ripetuto, aggiunge Lacan, è qualcosa che sfugge al dominio del simbolico, qualcosa che si sottrae alle possibilità del pensiero di pensarlo.
A questo qualcosa che il pensiero non può afferrare Lacan dà il nome di reale.
Tenere botta.
Da qui possiamo determinare come per ogni soggetto ci siano diverse capacità di tollerare e sopportare la quantità di eccitazione che “il colpo di reale” genera, ove la soglia dell’insopportabile non è la stessa per tutti, così come non sia per tutti la resistenza che l’individuo ha di fronte al trauma. Dove possiamo allora reperire le coordinate entro le quali gli individui dell’epoca attuale si muovono nei loro “momenti traumatici” e le “forze del soggetto” di fronte ai loro traumi?
Credo che un punto che differenzi l’individuo contemporaneo da quello di epoche passate e ciò che discrimini un soggetto da un altro, nel medesimo contesto storico, sia quanto questo sia radicato nella trama simbolica che il discorso collettivo impone e quale marca porti con sé questo discorso. La marca del discorso collettivo come uno dei principali fattori nella costituzione del soggetto può funzionare come una sorta di cartina tornasole nel misurare quale è che sia la soglia dell’insopportabile in rapporto a ciò che chiamiamo “colpo di reale” senza partecipazione soggettiva e la lettura che il soggetto possa fare dell’evento reale.
Colette Soler afferma che:
“nell’orrore non vi è soglia talmente elevata che un discorso consistente non sia in grado di addomesticare, col farla accettare, con l’idealizzarla, con l’elevarla in valore”
Come quanto commentato in Enrico V di Shakespeare, atto IV, scena 3. Scena in cui c’è il monologo del re Enrico prima della famosa battaglia di Anzicourt, dove gli inglesi, abbattuti, stremati e in inferiorità numerica, vinsero contro un esercito francese riposato e in sovrannumero. Qui appare come un discorso possa sublimare anche l’orrore della morte. Oppure facendo riferimento ai fanatici religiosi, di come questi l’affrontino impavidi e motivati, nella loro violenza, da tutte quelle cause che suppongono buone. Così il discorso si erge come capace di addomesticare, canalizzare ed elevare a valore quelle pulsioni stesse che possono scardinare ogni riferimento simbolico, eccedendo ed emergendo da tutte le coordinate entro le quali solitamente sono imbrigliate. L’operazione discorsiva che permette, almeno in parte, di porre riparo all’effetto traumatico delle emergenze del reale è un’operazione che mette ordine tramite un’attribuzione di senso, facendosi involucro protettivo. Dunque quando i significati sono stabili e condivisi, i soggetti sembrano essere meno esposti alle effrazioni di reale poiché sembrano ben protetti da un involucro di senso condivisibile e stabile, reperibile nel discorso di un Altro unificante nel quale i soggetti sono inseriti.
Ne Il trionfo della religione Lacan ne da conto rapportando la scienza alla religione: “Poco fa ho parlato del reale. Il reale, per quanto poco la scienza vi si impegni, si estenderà, per cui la religione troverà molti motivi in più per acquietare i cuori. […] Bisognerà che a ogni sconvolgimento introdotto dalla scienza diano un senso. E per quanto riguarda il senso, ci sanno fare. Sono veramente capaci di dare senso a qualunque cosa. Per esempio alla vita umana.[…] Non è perché le cose diventano meno naturali, grazie al reale, che si cesserà di secernere il senso”.
La religione come esempio principe di un discorso dell’Altro unificante, capace di secernere senso e di trovare “una corrispondenza di tutto con tutto”. Una risorsa capace di significare le emergenze del reale, ma che oggigiorno sembra perdere terreno di fronte a quella che si è designato col nome di morte di Dio. Morte alla quale sembra supplire “la contabilità universale”. Espressione che Lacan utilizza nel Seminario L’etica della psicoanalisi, del 1959 – 1960, per dire di una supplenza laica, che in mancanza del dare senso, registra l’avvenuto con modi e forme dedite a fronteggiare le contingenze assimilate all’irrimediabile e all’ineluttabile. Dunque soggetti aperti a un discorso collettivo che non si presta più essere un involucro protettivo e in grado di secernere quel senso che dia una corrispondenza di tutto con tutto. Discorso collettivo non più in grado di dare riferimenti stabili e condivisi all’interno dei quali i soggetti, oramai resi più fragili, si vanno sfilacciando insieme a quei legami che la contingenza e la precarietà delle coppie, del lavoro, dei rapporti fra le generazioni ne danno quotidianamente manifestazione.
Ma quando l’Altro è inconsistente vi è ciò che Lacan ha chiamato Traumatisme.
Gli eccessi sono suscettibili di divenire fattori traumatici. Ovvero la riduzione progressiva della capacità di dare senso agli eventi con operazioni simboliche che da sempre hanno consentito all’essere umano di sopportare condizioni e situazioni esistenziali difficili. Ciò che si evince in Il trionfo della religione è che il “secernere il senso” e “dare senso a qualunque cosa” siano legati e ordinati dal trovare una “corrispondenza di tutto con tutto”.
Orientarsi nel trovare una corrispondenza di tutto con tutto è ciò che a mio parere permette di rendere più consistente un discorso, il proprio discorso. Una corrispondenza che nell’epoca moderna manca, un involucro protettivo le cui congiunture vengono meno lasciando sempre più spazio al reale, in cui i suoi eccessi sono suscettibili di divenire fattori traumatici. Effrazioni di reale che trovano spazio in queste mancate congiunture. La mancanza di un discorso collettivo con significati stabili e condivisi tra i soggetti aumenta considerevolmente l’impossibilità ai significati di trovare una corrispondenza ed un legame tra loro. Così se il discorso collettivo sembra sempre più portare con sé la marca di un Altro inconsistente nel dare senso alle occorrenze del troppo, non resta che verificare, quanto e come il soggetto costituitosi in questo contesto sia radicato nel simbolico.
Prendendo a prestito una frase di Lacan sempre in Il trionfo della religione “Si tratta semplicemente di sapere se questa verità terrà botta, vale a dire se sarà capace di secernere abbastanza senso da sommergerci ben bene”, ovvero, si tratta semplicemente di verificare, come per la religione, se le riserve del soggetto saranno in grado di secernere abbastanza senso per “tenere botta” ai colpi del reale.
Le prime prove di un discorso collettivo le vediamo nella ricerca di una ricerca di vicinanza, di appartenenza, di un appello al discorso patriottico. Che prendendo piede dalle proprie tradizioni, esprimendosi attraverso il megafono del balcone, ricercano un senso di unità, di appartenenza ad un discorso collettivo – unitario che ci protegga da un reale intrattabile. La moltiplicazione degli appuntamenti sui nostri balconi esprime la necessità, la richiesta di, “sommergerci bene bene” per “tenere botta”.
Forse troppo precoce rispetto al lungo periodo che ci attende.
Ma dall’altro esprime anche la marca di un Altro inconsistente nel dare senso alle occorrenze del troppo. Una carenza.
Gli effetti della situazione attuale saranno decifrabili solo dal modo in cui continueremo a narrarci all’interno della cornice della situazione che stiamo vivendo. E come, intimamente, ce la narreremo, sia da chi è stato toccato individualmente dalla scabrosità del reale, sia da chi non lo è stato.
La mancata accettazione nella crisi
AVVOCATO: dove possiamo parlare un momento?
LEGALE: stiamo parlando…
AVVOCATO: non sono sicuro che lei capisca la mia posizione..
LEGALE: e invece la capisco avvocato….
…..le azioni creano conseguenze che producono nuovi mondi e soprattutto mondi diversi. Dove i corpi vengono sepolti nel deserto quello è un certo mondo, dove i corpi vengono lasciati perché li trovino, quello è un altro…
e tutti questi mondi che prima ci erano sconosciuti devono essere sempre stati li, non crede?
AVVOCATO: non lo so…mi può aiutare?
LEGALE: La inviterei a rendersi conto della situazione in cui si trova avvocato.
Questo è il mio consiglio.
Non tocca a me dirle che cosa avrebbe dovuto o non dovuto fare..
..il mondo in cui cerca di riparare agli errori che ha commesso
è diverso dal mondo in cui ha commesso quegli errori..
lei adesso è ad un bivio e vorrebbe poter scegliere. Ma non può più farlo…
Può solo accettare..
La scelta è stata fatta tanto tempo fa..
LEGALE: è ancora li avvocato?
AVVOCATO: si..
LEGALE: Non la voglio offendere, ma gli uomini riflessivi spesso si ritrovano in un luogo lontano dalla realtà della vita..
..in ogni caso dovremmo tutti prepararci un posto, dove poter accogliere le tragedie che prima o poi colpiscono le nostre vite,
ma questo è una precauzione che pochi mettono in pratica..
Un avvocato di successo, il cui nome non viene mai pronunciato, in un momento di difficoltà economica e professionale decide di accettare la proposta di Reiner, affiliato malavitoso nonchè suo vecchio cliente. Westray, collaboratore di Reiner nei suoi traffici di droga, prova a mettere in guardia l’avvocato sulla difficoltà di questa vita e dell’operazione stessa, ma sarà inevitabile per lui venir risucchiato da quel mondo di violenza e morte. Riportando questo breve scambio di battute estratto da THE COUSELOR – IL PROCURATORE un film diretto e prodotto da Ridley Scott, la cui pellicola è basata sulla prima sceneggiatura originale dello scrittore Cormac McCarthy; andiamo a mettere l’accento sulla criticità della mancata accettazione delle situazioni di crisi in cui molte volte ci troviamo. L’avvocato si dimena in uno stato di tensione e agitazione che solo la lucidità della voce all’altro capo del telefono può placare, gettandolo nell’angoscia in quella che è la reale situazione, ovvero rendersi conto della situazione in cui si trova; che le scelte che lo hanno portato fino a lì sono già state fatte in un tempo passato, che le situazioni create hanno portato lui, in una concatenazione di eventi fino alla condizione per cui non può far altro che rendersene conto ed accettare solamente.
“il mondo in cui cerca di riparare agli errori che ha commesso
è diverso dal mondo in cui ha commesso quegli errori..”
Il tempo passato rimarrà tale. Il tempo per cui decidere cosa avrebbe dovuto o non dovuto fare è passato. Lo spazio per preparare un posto dove poter accogliere le tragedie che prima o poi colpiscono la vita di ognuno di noi è una precauzione che pochi mettono in pratica.
Ora si abita un altro tempo.
Ora si è ad un bivio, dove le scelte che vorremmo fare, non si possono più fare.
Si può solo accettare.
La caduta del mondo in cui abitavamo ci trascina traumaticamente in una condizione di solitudine. In un reale che ci agita, ci angoscia. Sperimentiamo una volontà di vicinanza verso l’altro che seppur vicino non ci può aiutare..o meglio non può dirci cosa fare o non fare, non può toglierci quella sensazione di dosso, tanto più se siamo ancorati ad un passato, ad un mondo passato e decaduto. Siamo gettati lì da soli con noi stessi. Ci portiamo addosso quel che siamo. Le possibilità di azione ci paiono ridotte così drasticamente che demandiamo ad un altro il meglio da fare. Sappiamo e sembra che non ci sia più margine di azione in quel mondo e così si riporta insistentemente quello passato nel presente, chiedendo aiuto ad altro per poter agire ancora in quel mondo in caduta, per salvare il salvabile, per tornare a come era prima..
AVVOCATO: Faro qualunque cosa mi consiglierà.
LEGALE: non ho nessun consiglio da darle.
AVVOCATO: dove possiamo parlare un momento?
LEGALE: stiamo parlando…
AVVOCATO: non sono sicuro che lei capisca la mia posizione..
LEGALE: e invece la capisco avvocato…
…le azioni creano conseguenze che producono nuovi mondi e soprattutto mondi diversi. Dove i corpi vengono sepolti nel deserto quello è un certo mondo, dove i corpi vengono lasciati perché li trovino, quello è un altro…
e tutti questi mondi che prima ci erano sconosciuti devono essere sempre stati li, non crede?
…il mondo in cui cerca di riparare agli errori che ha commesso
è diverso dal mondo in cui ha commesso quegli errori..
lei adesso è ad un bivio e vorrebbe poter scegliere. Ma non può più farlo…
Può solo accettare..
e tutti questi mondi che prima ci erano sconosciuti devono essere sempre stati li, non crede?”
Un mondo nuovo è il mondo nel quale ci ritroviamo e che non poteva che attenderci, appellando una nuova significazione in base al nostro trascorso. Siamo chiamati in causa e responsabilizzarci rispetto a quanto abbiamo.